giovedì 10 novembre 2016

L'arte vuole tempo


L’arte vuole tempo 

La fotografia è arte oppure no?
David Bate afferma che è una “forma fondamentale dell’arte moderna” entrata e riconosciuta negli istituti d’arte a partire dalla fine degli anni Ottanta.
Ovviamente concordo, anzi direi che si sta velocemente affermando come una delle principali forme d’arte contemporanea sempre più riconosciuta come tale dalla gente comune.
Perché è questo che conta: avere un rapporto continuo con le persone che acquistano arte, non solo con i collezionisti che appartengono ad un mercato più alto e rarefatto, ma tutti coloro che si innamorano di un quadro o di una fotografia e cercano di possederla per poterne godere ogni giorno.
Per farla entrare nella loro vita quotidiana.
La pittura, ed oggi la fotografia, fatta salva la necessità interiore dell’autore, ha il  compito di arredare uno spazio costruito sia esso pubblico o privato.
Si pensi a quanto sarebbe spoglia la stazione centrale di Milano senza le immagini pubblicitarie di grande formato che la arredano.
Così in un mondo formato prevalentemente da fotografie, dobbiamo cercare di distinguere quali di queste possono essere considerate “artistiche” e quali no.
E’ evidente che l’invenzione dell’ elaborazione digitale ha reso, almeno apparentemente, l’approccio alla parte tecnica molto più diretto e gestibile rispetto ai tempi in cui si doveva sviluppare e poi stampare la pellicola.
La semplicità è solo illusoria perché dal punto di vista tecnico, se ci si vuole  davvero occupare di tutti gli aspetti dell’immagine, la complessità è assai maggiore di prima.
Ma questo non riguarda i sette miliardi di potenziali fotografi presenti sul nostro pianeta, perché per loro sarà sufficiente scattare e vedere immediatamente il risultato sullo schermo del telefono, del tablet o della reflex.
La difficoltà della fotografia a farsi riconoscere e considerare come arte dalla gran parte delle persone sta proprio nell’apparente facilità con cui è possibile realizzare un’immagine, a differenza di un dipinto ad olio o di una partitura musicale, magari del passato.
Il primo livello dell’arte è la difficoltà tecnica, la bravura dell’artista a costruire fisicamente l’opera.
Questo è il principale elemento di fascinazione ancora oggi, malgrado un elenco smisurato di artisti abbia cercato in tutti i modi di convincere lo spettatore che è l’idea quella che conta, il concetto che essa  porta con se e non la sua realizzazione; il primo incontro con un lavoro artistico rimane quello della difficoltà ad essere realizzato.
Anche dopo Duchamp e la sua provocazione del ready made che ormai ha superato i 100 anni e dopo  Sol Lewitt che teorizzava l’autonomia dell’idea dalla sua realizzazione fino a fare costruire le proprie istallazioni da altri attraverso istruzioni precedentemente scritte.
Per gli addetti ai lavori ( autori, critici e collezionisti )  il problema non esiste, ma per la maggioranza delle persone che si avvicinano all’arte il tema è ancora di grande attualità.
La maggioranza delle persone non sa ad esempio che Botero, Koons e tanti altri, non realizzano fisicamente le loro statue, perché per farlo ci vogliono officine specializzate.
Pensano alla magnificenza della Pietà di Michelangelo e della sua reale capacità di usare lo scalpello personalmente per plasmare il marmo.
Perché la Pietà l’ha pensata, disegnata e scolpita lo stesso autore e questo non è un elemento trascurabile, malgrado buona parte della storia dell’arte del secondo Novecento tenti di affermare il contrario.
Non mi considero un conservatore, utilizzo tutta la tecnologia che il XXI° secolo mette a disposizione per realizzare i miei lavori e per vivere, ma credo che un passo indietro verso il ritorno al saper fare, farebbe un gran bene a tutte le forme d’arte.
E per fare questo, ci vuole tempo.
Tornando alla domanda iniziale,sono d’accordo con Carlo Fontana quando dice che la fotografia (quella d’autore) la fa la testa e non la macchina fotografica; però se tutto il processo venisse interamente realizzato dall’autore ed in qualche modo certificato, penso che darebbe un valore aggiunto all’opera.
Molti autori questo ormai lo fanno da tempo e cercano di trasmetterlo ai potenziali fruitori perché sanno bene che la parte tecnica è comunque importante, assieme all’unicità dell’opera.
L’unicità dell’opera è l’altro punto debole verso il riconoscimento globale della fotografia come arte.
Sull’unicità oltre al citatissimo Benjamin, c’è una letteratura sterminata a cui chiunque può attingere per ragionare sul tema; a me preme sottolineare che in realtà non esiste una stampa uguale all’altra se non fatta nello stesso giorno, dalla stessa stampante con la stessa confezione di carta, perché basta cambiare solo la confezione (non la marca) perchè il risultato sia differente.
Quindi, oltre al necessario limite imposto da ogni autore, le stampe sono comunque tutte uniche.
Ma allora come si fa a capire se una fotografia è degna di essere chiamata “artistica” oppure no?
Ovviamente non c’è una risposta univoca.
La risposta che si è data Maria Cristina de Zuccato quando ha fondato la galleria Noema Gallery assieme a me, è stata quella di cercare fotografie in cui si riesca a leggere il tempo.
Il tempo inteso come luogo metafisico necessario per capire, ragionare, pensare.
L’arte, come l’essere umano, ha bisogno di un’estensione temporale ampia per potersi manifestare ed essere compresa e la nostra indagine si è orientata alla ricerca della lentezza, in opposizione alla contemporaneità che fugge dal lento e consuma tutto velocemente. 
L’elogio della lentezza, oltre ad essere un titolo molto amato in letteratura, è l’auspicio che faccio all’arte fotografica;  benché possa sembrare un ossimoro per un mezzo che si esprime in millesimi di secondo, in realtà la creazione dell’immagine nel pensiero del suo autore ha una formazione quasi carsica.
Ecco già questo potrebbe essere un metodo per cominciare a distinguere fra una fotografia con aspirazioni artistiche ed una fatta tanto per fare; con la raccomandazione che lento non significa andare in giro con pesantissimi cavalletti di legno sulle spalle e con macchine fotografiche dalle dimensioni gigantesche.
Quella forma di lentezza la associo alla preistoria, al desiderio anacronistico di una forma pedissequa di ritorno al passato,  certamente poco utile alla costruzione della contemporaneità.
Per noi la lentezza è legata alla costruzione del progetto, al tempo necessario per pensarlo ed elaborarlo, non al tempo che ci vuole per salire su un sentiero con venti chili sulle spalle ed uno straccio nero in testa come si faceva nei secoli scorsi.

I lavori selezionati da Noema Gallery sono in parte visibili a Milano in una mostra che sarà presente fino a marzo 2017 negli splendidi spazi di DePadova in via Santa Cecilia 7.

In quel luogo si è cercato di unire l’idea di arredamento, lentezza e piacere nel circondarsi di oggetti che possano contribuire a farci vivere meglio.
Ecco perché l’arte vuole tempo.

© 2016 Aldo Sardoni | Milano 
Riproduzione riservata




mercoledì 2 novembre 2016

Vernissage DePadova Milano

Il 27 ottobre si è inaugurata la mostra di tre nostri autori presso DePadova Store a Milano.
Noema Gallery è particolarmente orgogliosa di essere fra i partner del prestigioso marchio milanese.
Gli autori in mostra sono:

La mostra è visitabile fino a marzo 2017 presso DePadova Store via Santa Cecilia 7 20122 Milano  T. +39 02777201  www.depadova.com  






 
 





 


 

venerdì 22 luglio 2016

L'Arte vuole tempo

L'Arte vuole tempo, questo lo sa bene il management di Boffi - DePadova a Milano, che ha raggiunto un accordo a medio termine con la galleria di fotografia contemporanea Noema Gallery per mostrare, con il tempo e la calma necessari, alcuni autori selezionati fra quelli rappresentati dalla galleria.
Così in via Santa Cecilia al numero 7, è possibile guardare ed osservare  una selezione dei lavori fotografici di Marco Lanza, Alessandro Rizzi e Aldo Sardoni.
Fotografie di grande formato esposte in uno showroom di grande prestigio internazionale. 
Le fotografie, dotate di certificato di autenticità che ne attesta provenienza e numerazione, possono anche essere acquistate direttamente presso lo showroom.


Ingresso libero |
in mostra da luglio 2016 a marzo 2017
Showroom  DePadova via Santa Cecilia 7 | 20122 Milano
Lunedì 10-18
Dal martedì al sabato 10-19
Domenica chiuso
T. +39 02777201  DePadova
T. +39 3355200775 mc@noemagallery.com | Maria Cristina de Zuccato |





L'Arte vuole tempo

L'Arte vuole tempo, questo lo sa bene il management di Boffi - DePadova a Milano, che ha raggiunto un accordo a medio termine con la galleria di fotografia contemporanea Noema Gallery per mostrare, con il tempo e la calma necessari, alcuni autori selezionati fra quelli rappresentati dalla galleria.
Così in via Santa Cecilia al numero 7, è possibile guardare ed osservare  una selezione dei lavori fotografici di Marco Lanza, Alessandro Rizzi e Aldo Sardoni.
Fotografie di grande formato esposte in uno showroom di grande prestigio internazionale. 
Le fotografie, dotate di certificato di autenticità che ne attesta provenienza e numerazione, possono anche essere acquistate direttamente presso lo showroom.


Ingresso libero |
in mostra da luglio 2016 a marzo 2017
Showroom  DePadova via Santa Cecilia 7 | 20122 Milano
- martedì/sabato 10.00 - 21.00
- domenica 10.00 - 18.00
- lunedì chiuso 

T. +39 02777201  DePadova
T. +39 3355200775 mc@noemagallery.com | Maria Cristina de Zuccato |





venerdì 24 giugno 2016

Mostra in Solferino


Mostra collettiva di fotografia d'autore.
Dal 20 giugno al 2 luglio, in una Milano calda e desiderosa di vacanze, Noema Gallery  offre la possibilità di una passeggiata in via Solferino angolo Castelfidardo arricchita dalla possibilità di osservare il lavoro di sette fotografi:

Frédéric Fontenoy
Matteo Guariso
Marco Lanza
Gianni Pezzani
Alessandro Rizzi
Massimo Siragusa
Aldo Sardoni

Venite a trovarci, sarà una grande occasione per immergersi nella fotografia contemporanea d'autore.
Seguiteci anche su Instagram.












sabato 7 maggio 2016

Matteo Guariso e Marco Lanza al Photofestival 2016

Il photofestival di Milano quest'anno sarà aperto dal 20 aprile al 12 giugno 2016 e la Noema Gallery porta in mostra due suoi autori:
Matteo Guariso e Marco Lanza.

Matteo Guariso | Luce
a cura di Aldo Sardoni 

Hotel Sheraton Diana Majestic
3 maggio / 12 giugno 2016
viale Piave 42 - Milano
lunedì-domenica 11/20
Vernice venerdì 17 maggio 2016 ore 18
Comunicato Stampa


  



Marco Lanza | I Depositi. Immagini dai musei italiani
a cura di Noema Gallery 

Palazzo Bovara
2/18 maggio
corso Venezia 51 - Milano
lunedì-venerdì 8.30/18  






 

Terminato il MIA 2016

Lunedì 2 maggio si è chiusa l'edizione 2016 del Milan Image Art Fair , i numeri degli ingressi e tutti i particolari  potete trovarli nel sito ufficiale della manifestazione.
Noema Gallery ha partecipato portando Aldo Sardoni e Matteo Guariso che si sono confrontati sul tema degli edifici industriali del secolo scorso, in particolare su due centrali idroelettriche.
Matteo con la centrale Taccani di Trezzo d'Adda in Lombardia (ancora funzionante) e Aldo con la Centrale di Santa Caterina a San Giovanni Suergiu in Sardegna (dismessa).
Una bella mostra in cui i due autori si sono confrontati con mezzi stilistici completamente diversi fra loro, addirittura opposti, ottenendo un risultato interessante sia dal punto di vista del dibattito che del gradimento di pubblico.
Aldo Sardoni è stato citato nel blog di IoDonna|Corriere della Sera durante la mostra.
Grazie a tutti coloro che sono venuti a trovarci.



martedì 26 aprile 2016

Matteo Guariso #Luce




Pubblichiamo in anteprima il testo di curatela che Aldo Sardoni ha preparato per la mostra di Matteo Guariso al Milan Image Art Fair 2016, per chi non avrà la possibilità di venire a vedere la mostra.
Ringraziamo per questo L'autore che ce lo ha fornito.

Matteo Guariso | Luce
Osservando il lavoro di Matteo Guariso sulla Centrale Termoelettrica di Trezzo d’Adda il mio pensiero è andato subito ai tre registri lacaniani:
-        L’Immaginario
-        Il reale
-        Il Simbolico
L’Immaginario è ciò che avviene nel pensiero, il Reale avviene fuori da noi, il Simbolico è il linguaggio che è struttura dell’inconscio.
La scelta di lavorare su un edificio industriale attivo senza rendere il risultato una mediocre rappresentazione di ciò che è, ha rappresentato un grande rischio.
Scivolare nella banalità del tema producendo un risultato utile al marketing aziendale o all’archivistica era davvero facile.
Sarebbe stato uno shooting professionalmente corretto ma totalmente inutile per la fotografia d’autore.
In realtà Matteo ha prodotto un lavoro molto interessante, utilizzando la centrale idroelettrica per raccontarci altro; l’edificio è un espediente necessario per portarci altrove.
Questo è il motivo per cui associo il progetto ai tre registri di Jaques Lacan.
Le immagini fotografano un edificio vero (il Reale) posto dinnanzi all’obiettivo, niente farebbe pensare che il fotogramma non rappresenterà davvero quello che si vede andando sul luogo e invece il pensiero di Guariso lo trasforma in altro (l’Immaginario) per descriverci uno spazio interiore attraverso la trasformazione dell’immagine ed il linguaggio dell’autore (Il Simbolico).
Tema attraente e permanente in quasi tutti i suoi lavori, ci traghetta nel buio in posti sconosciuti che ognuno di noi declinerà secondo le proprie esperienze e la propria cultura.
Pertanto questo lavoro ci obbliga al pensiero, a soffermarci per cercare di capire, non si limita al puro senso estetico comune; direi che per tale motivo è un lavoro difficile al primo sguardo, ha bisogno di tempo perché forse è proprio dentro il tempo che l’autore ci invita ad entrare.
In questo senso potrebbe avvicinarsi all’idea di opera d’arte di Lev Tolstoj quando dice che “L’arte non è, come dicono i metafisici, la manifestazione di qualche misteriosa idea, della bellezza o di dio; non è, come dicono i fisiologi, un giuoco in cui l’uomo sfoga le superflue energie accumulate; non è la manifestazione di un’emozione per mezzo di segni esteriori; non è la produzione di opere

gradevoli; e, ciò che più importa, non è godimento; ma è un mezzo di comunicazione che riunisce gli uomini accomunandone le sensazioni, ed è necessario alla vita e al progresso verso il bene del singolo uomo e dell’umanità.”
Matteo trascende, trasforma, cerca visioni oltre l’immagine, in una parola: comunica.
Trasmette questo a chi guarda le sue fotografie in generale e quelle della Centrale idroelettrica di Trezzo sull’Adda in particolare ché rappresenta  uno dei suoi lavori migliori.
Non riproduce ciò che ha davanti all’obiettivo ma utilizza il soggetto per creare altro; lontano da quel che si vede realmente.
Oppure quel luogo è davvero così e noi non riusciamo a percepirlo se non attraverso le sue fotografie?
Si coglie un forte desiderio di entrare nel mondo nascosto dell’immagine, di avere un contatto con le parti celate e poco conosciute del mezzo fotografico. Forse li è racchiuso qualcosa che vale la pena di fotografare.
Mi sembra che Matteo concentri la sua ricerca all’interno di questo “non luogo” per farcelo conoscere e vedere. Certamente il suo interesse per la psicologia ha contribuito fortemente alla formazione della sua poetica, abituandolo a suggerire piuttosto che dichiarare.
I suoi lavori non parlano dell’attualità, cercano di proporci percorsi meno battuti, meno accomodanti e rassicuranti.
Non è presente un significato univoco ma piuttosto l’idea di indicare un percorso che inevitabilmente sarà diverso per ogni osservatore e questo lo rende particolarmente interessante.
Si comporta come un autore fotografico non come un fotografo. Mi soffermo spesso su questa mia definizione perché ritengo sia importante insistere sulla sua descrizione per affrontare la visione di un progetto fotografico con un approccio più consapevole.
L’ autore fotografico è una figura relativamente recente, come peraltro lo è la fotografia rispetto alle altre arti, ed ancora in fase di definizione e riconoscimento pubblico; cosa non facile visto che la stessa fotografia fa fatica ad essere universalmente riconosciuta come forma d’arte.
L’ Autore è diverso dal fotografo, entrambi utilizzano la macchina fotografica ma questa è l’unica cosa in comune che hanno.
Il primo è vicino al concetto di artista, fa della propria necessità espressiva un elemento fondante della sua  esistenza sentendola come un bisogno assoluto ed incontrollabile indispensabile alla vita.

Il secondo è un professionista che svolge un incarico in modo tecnicamente impeccabile e funzionale a chi glielo ha richiesto, così, ad esempio, avrebbe fotografato la centrale di Trezzo d’Adda perfettamente illuminata, a fuoco, con le composizioni ben bilanciate, ecc., fornendo un prodotto finito pronto per le richieste del committente.
Sono due modi completamente diversi di utilizzare il mezzo fotografico, entrambi con un proprio statuto e pari dignità ma comunque differenti.
Tengo molto a questa distinzione perché ci permette di porci davanti al lavoro di un Autore in un modo maggiormente attento e partecipato, molto più vicino a quello che avremmo durante la visita ad un museo.
E’ necessario costruire la propria sensibilità, la capacità di osservare, così come devo imparare la matematica se voglio leggere un testo in cui compaiono integrali e funzioni, allo stesso modo devo costruire in me le condizioni affinché ciò che vedo possa permearmi  dandomi significato.
L’approccio è importante in questo tipo di immagini, perché non stupiscono immediatamente per la loro bellezza né contengono effetti speciali che catturano immediatamente l’attenzione di chi guarda. Sono immagini che diventano belle man mano che si guardano, teoricamente bisognerebbe avere la possibilità di passarci davanti ogni tanto e fermarsi ad osservarle, come faceva Michelangelo con i suoi disegni mentre li preparava. Non andavano bene subito, li attaccava al muro ed ogni tanto li  guardava per apporvi o meno delle correzioni; per parlarci.
E’ un approccio lento quello che propongo per entrare nel mondo di Matteo Guariso, un criterio teorico perché certamente non si ha la possibilità di osservare le sue fotografie passandoci davanti ogni tanto; ma è un suggerimento che contiene in se alcune possibilità di avvicinamento al suo lavoro.
Luce è un lavoro lento che ha bisogno di meditazione, si oppone all’ebetismo retinico a cui ci stiamo abituando con il bombardamento di miliardi di immagini provenienti da ogni luogo e confluenti quasi tutte su uno smartphone od un tablet.
Non escono quasi mai dai dispositivi, non diventano quasi mai qualcosa di toccabile, sono tutte virtuali ed impalpabili; non hanno uno spessore, né consistenza, né odore, né peso.
Sono tutte miseramente inesistenti.
Luce invece chiede di porci davanti a lei per guardarla attentamente e lentamente perché esiste, solo così è possibile che ci prenda per mano e ci porti con se.


Chiudo questo breve commento chiedendo aiuto a Proust che dice “la parola è fatta di una sostanza chimica impalpabile che opera le più violente alterazioni”.
Credo che questo lavoro possa essere sintetizzato dicendo che la fotografia e la mente del suo autore sono fatte di una sostanza chimica impalpabile che opera le più violente alterazioni.
Buona visione.
Milano, 28 aprile 2016

                                                                             

©2016 Aldo Sardoni   (Art Director | Noema Gallery)  RIPRODUZIONE RISERVATA




Jaques Lacan (Parigi1901|1981).
Lev Tolstoj, Che cos’è l’arte?, Donzelli Editore, 2010, pag.60.
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto V  La Prigioniera, in Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, 2014, pag. 24.