Pubblichiamo in anteprima il testo di curatela che Aldo Sardoni ha preparato per la mostra di Matteo Guariso al Milan Image Art Fair 2016, per chi non avrà la possibilità di venire a vedere la mostra.
Ringraziamo per questo L'autore che ce lo ha fornito.
Matteo
Guariso | Luce
Osservando
il lavoro di Matteo Guariso sulla Centrale Termoelettrica di Trezzo d’Adda il
mio pensiero è andato subito ai tre registri lacaniani:
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L’Immaginario
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Il reale
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Il Simbolico
L’Immaginario
è ciò che avviene nel pensiero, il Reale avviene fuori da noi, il Simbolico è
il linguaggio che è struttura dell’inconscio.
La scelta
di lavorare su un edificio industriale attivo senza rendere il risultato una
mediocre rappresentazione di ciò che è, ha rappresentato un grande rischio.
Scivolare
nella banalità del tema producendo un risultato utile al marketing aziendale o
all’archivistica era davvero facile.
Sarebbe
stato uno shooting professionalmente corretto ma totalmente inutile per la fotografia d’autore.
In realtà
Matteo ha prodotto un lavoro molto interessante, utilizzando la centrale
idroelettrica per raccontarci altro; l’edificio è un espediente necessario per
portarci altrove.
Questo è
il motivo per cui associo il progetto ai tre registri di Jaques Lacan.
Le
immagini fotografano un edificio vero (il Reale) posto dinnanzi all’obiettivo,
niente farebbe pensare che il fotogramma non rappresenterà davvero quello che
si vede andando sul luogo e invece il pensiero di Guariso lo trasforma in altro
(l’Immaginario) per descriverci uno spazio interiore attraverso la
trasformazione dell’immagine ed il linguaggio dell’autore (Il Simbolico).
Tema
attraente e permanente in quasi tutti i suoi lavori, ci traghetta nel buio in
posti sconosciuti che ognuno di noi declinerà secondo le proprie esperienze e
la propria cultura.
Pertanto
questo lavoro ci obbliga al pensiero, a soffermarci per cercare di capire, non
si limita al puro senso estetico comune; direi che per tale motivo è un lavoro
difficile al primo sguardo, ha bisogno di tempo perché forse è proprio dentro
il tempo che l’autore ci invita ad entrare.
In questo
senso potrebbe avvicinarsi all’idea di opera d’arte di Lev Tolstoj quando dice
che “L’arte non è, come dicono i metafisici, la manifestazione di qualche
misteriosa idea, della bellezza o di dio; non è, come dicono i fisiologi, un
giuoco in cui l’uomo sfoga le superflue energie accumulate; non è la
manifestazione di un’emozione per mezzo di segni esteriori; non è la produzione
di opere
gradevoli;
e, ciò che più importa, non è godimento; ma è un mezzo di comunicazione che
riunisce gli uomini accomunandone le sensazioni, ed è necessario alla vita e al
progresso verso il bene del singolo uomo e dell’umanità.”
Matteo
trascende, trasforma, cerca visioni oltre l’immagine, in una parola: comunica.
Trasmette questo a chi guarda le sue
fotografie in generale e quelle della Centrale idroelettrica di Trezzo
sull’Adda in particolare ché rappresenta uno dei suoi lavori migliori.
Non riproduce ciò che ha davanti all’obiettivo
ma utilizza il soggetto per creare altro; lontano da quel che si vede
realmente.
Oppure quel luogo è davvero così e noi non
riusciamo a percepirlo se non attraverso le sue fotografie?
Si coglie un forte desiderio di entrare nel
mondo nascosto dell’immagine, di avere un contatto con le parti celate e poco
conosciute del mezzo fotografico. Forse li è racchiuso qualcosa che vale la
pena di fotografare.
Mi sembra che Matteo concentri la sua ricerca
all’interno di questo “non luogo” per farcelo conoscere e vedere. Certamente il suo interesse per la psicologia ha
contribuito fortemente alla formazione della sua poetica, abituandolo a
suggerire piuttosto che dichiarare.
I suoi lavori non parlano dell’attualità,
cercano di proporci percorsi meno battuti, meno accomodanti e rassicuranti.
Non è presente un significato univoco ma
piuttosto l’idea di indicare un percorso che inevitabilmente sarà diverso per
ogni osservatore e questo lo rende particolarmente interessante.
Si
comporta come un autore fotografico
non come un fotografo. Mi soffermo spesso su questa mia definizione perché
ritengo sia importante insistere sulla sua descrizione per affrontare la
visione di un progetto fotografico con un approccio più consapevole.
L’ autore fotografico è una figura
relativamente recente, come peraltro lo è la fotografia rispetto alle altre
arti, ed ancora in fase di definizione e riconoscimento pubblico; cosa non
facile visto che la stessa fotografia fa fatica ad essere universalmente
riconosciuta come forma d’arte.
L’ Autore è diverso dal fotografo, entrambi
utilizzano la macchina fotografica ma questa è l’unica cosa in comune che
hanno.
Il primo è
vicino al concetto di artista, fa della propria necessità espressiva un
elemento fondante della sua esistenza
sentendola come un bisogno assoluto ed incontrollabile indispensabile alla
vita.
Il secondo
è un professionista che svolge un incarico in modo tecnicamente impeccabile e funzionale
a chi glielo ha richiesto, così, ad esempio, avrebbe fotografato la centrale di
Trezzo d’Adda perfettamente illuminata, a fuoco, con le composizioni ben
bilanciate, ecc., fornendo un prodotto finito pronto per le richieste del
committente.
Sono due
modi completamente diversi di utilizzare il mezzo fotografico, entrambi con un
proprio statuto e pari dignità ma comunque differenti.
Tengo
molto a questa distinzione perché ci permette di porci davanti al lavoro di un Autore in un modo maggiormente attento e
partecipato, molto più vicino a quello che avremmo durante la visita ad un
museo.
E’
necessario costruire la propria sensibilità, la capacità di osservare, così
come devo imparare la matematica se voglio leggere un testo in cui compaiono
integrali e funzioni, allo stesso modo devo costruire in me le condizioni
affinché ciò che vedo possa permearmi
dandomi significato.
L’approccio
è importante in questo tipo di immagini, perché non stupiscono immediatamente
per la loro bellezza né contengono effetti speciali che catturano
immediatamente l’attenzione di chi guarda. Sono immagini che diventano belle
man mano che si guardano, teoricamente bisognerebbe avere la possibilità di
passarci davanti ogni tanto e fermarsi ad osservarle, come faceva Michelangelo con
i suoi disegni mentre li preparava. Non andavano bene subito, li attaccava al
muro ed ogni tanto li guardava per apporvi
o meno delle correzioni; per parlarci.
E’ un
approccio lento quello che propongo per entrare nel mondo di Matteo Guariso, un
criterio teorico perché certamente non si ha la possibilità di osservare le sue
fotografie passandoci davanti ogni tanto; ma è un suggerimento che contiene in
se alcune possibilità di avvicinamento al suo lavoro.
Luce è un
lavoro lento che ha bisogno di meditazione, si oppone all’ebetismo retinico a
cui ci stiamo abituando con il bombardamento di miliardi di immagini
provenienti da ogni luogo e confluenti quasi tutte su uno smartphone od un
tablet.
Non escono
quasi mai dai dispositivi, non diventano quasi mai qualcosa di toccabile, sono
tutte virtuali ed impalpabili; non hanno uno spessore, né consistenza, né
odore, né peso.
Sono tutte
miseramente inesistenti.
Luce invece
chiede di porci davanti a lei per guardarla attentamente e lentamente perché
esiste, solo così è possibile che ci prenda per mano e ci porti con se.
Chiudo
questo breve commento chiedendo aiuto a Proust che dice “la parola è fatta di
una sostanza chimica impalpabile che opera le più violente alterazioni”.
Credo che
questo lavoro possa essere sintetizzato dicendo che la fotografia e la mente del suo autore sono fatte di una sostanza
chimica impalpabile che opera le più violente alterazioni.
Buona
visione.
Milano, 28 aprile 2016
©2016
Aldo Sardoni (Art
Director | Noema Gallery) RIPRODUZIONE RISERVATA
Jaques Lacan (Parigi1901|1981).
Lev Tolstoj, Che
cos’è l’arte?, Donzelli Editore, 2010, pag.60.
Marcel Proust, Alla
ricerca del tempo perduto V La Prigioniera, in Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso,
Einaudi, 2014, pag. 24.